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DAFNE NELLA BRUGHIERA


Disse il vecchio eremita all’uomo che gli chiedeva quale fosse il segreto dell’arcana alchimia delle fiabe: “scrivi ciò che sai, racconta quel che conosci”. L’uomo sapeva solo di emozioni e di commozione. E di questo provò a scrivere e a raccontare. Lo faceva quando tornava a casa, la sera, dopo un lungo cammino in montagna, un’esplorazione, una piccola avventura, incontri con creature e con paesaggi straordinari. Era ispirato dalla luce, dall’ombra, dalla vastità, dalla piccolezza, dalla solitudine, dal silenzio, dalle nubi, dagli alberi, dai grandi panorami, perfino dai microcosmi di foglie, humus, sassolini, erba, legno marcito, funghi, bacche e frutti caduti dagli alberi. Tutto lo affascinava. In un modo che in molti avrebbero giudicato infantile, ingenuo, ridicolmente poetico. Prese a tramutare in parole i colori, le sensazioni olfattive, il sentirsi messo a nudo, il trovarsi a casa pur stando in mezzo a una foresta o sopra una cresta rocciosa o in una grotta oscura, o in una latebra fluviale, l’essere compreso dall’aria e dal vento, il sentirsi amato dalle fronde e dai fiori, l’essere ascoltato dal silenzio … l’avere certezza che lì ci sarebbe stato sempre un rifugio senza prezzo per lui. Dove recarsi a vivere e a morire. Scriveva la sera dinanzi al fuoco rassicurante del camino, quando era solo. Con un rubino liquido in un calice. Che lo calmava e dilatava le sue percezioni. O con una tisana calda che scendeva lenta dalle labbra a tutto il suo corpo. Con gli occhi puntati alle fiamme e la sua psiche che eruttava lava incandescente. Quella lava era fatta, appunto, di parole. Parole che ci metteva delle ore a trovare, ordinare, spostare, modificare, espellere, poi a recuperarle nuovamente, a cercare di renderle vive e palpitanti, a dar loro un senso che somigliasse a quanto aveva provato. Ore sottratte al riposo, al lavoro vero (quello che gli dava da vivere), alla famiglia, alle relazioni con gli altri umani. Quel giorno, pensando al colloquio col vecchio eremita, si era alzato presto al mattino e si era forzato ad uscire di casa nonostante il cattivo tempo. Sentiva il bisogno di estraniarsi dal mondo degli uomini, di lenire le sue ansie, di cercare un contatto con ciò che sapeva essere celato lassù, al confine col cielo. Salì sul crinale della sua “montagna di casa”. Lasciò l’auto e prese a camminare nel vento e nella nebbia. Subito gli parve che il mondo assumesse un colore diverso dal solito. Eppure di nebbie – fuori e dentro di sé – l’uomo ne aveva viste tante negli anni! E anche in luoghi più blasonati e famosi! Quel giorno era come se vedesse la nebbia per la prima volta! I piccoli ontani ai lati del sentiero formavano un prezioso ordito di rami. Entrò fra i pini ondeggianti nel vento. Venne giù una pioggia sottile e sferzante. La foresta era così buia che il verde dei pini quasi non si distingueva più. Poi, all’improvviso, avvertì la presenza di piccoli gioielli palpitanti nell’oscurità: le foglie scarlatte dei rovi, il marrone delle felci aquiline, il bronzo delle foglie dei cerri … il giallo-arancione delle foglie dei faggi, lucide di pioggia, sopravvissute alla mutazione autunnale perché protette dai pini. Il suo cammino si trasformò d’un tratto in un vagare senza più meta. Capì solo ch’era entrato nella terra dei prodigi naturali. Anzi, non capì più nulla: di razionale e di umano. Lasciò che la le emozioni, la commozione fluissero liberamente nel suo sangue raggelato dal freddo. Provò uno strano calore. Cominciò a pensare come un albero o una foglia o un zolla di muschio. E a rendere grazia per quel dono inatteso. Alzò il capo verso la cupola dei rami e lasciò che gocce d’acqua gli inondassero il viso, come lacrime. Sollevò le braccia al cielo e provò una leggerezza inaudita, levitando nell’aria. Provò un senso di vertigine, e le fronde presero a ruotare in un vortice lento intorno a lui. Sentì, infine, il vento che dolcemente trapassava i suoi abiti, la sua pelle, le sue ossa, le sue vene, fino a mutargli il sangue. Capì, allora quel che il vecchio eremita aveva voluto dirgli. E fu lui stesso a sentirsi vento, linfa, rovo, albero … come Dafne nella brughiera. Nelle immagini: scorci del bosco fra Monte Capo Bove e Monte Faggio, Sila Piccola, Calabria, ieri mattina. Foto Francesco Bevilacqua.

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