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L’UOMO CHE SORRIDEVA AL DOLORE.




L’UOMO CHE SORRIDEVA AL DOLORE.

Son fiorite le orchidee. Anche le euforbie, gli anemoni, le vecce, tante piccole margherite arancioni. E’ un vecchio sentiero, quasi perduto. Se non fosse che ho una mappa mentale del luogo nell’encefalo (quella cartacea l’ho dimenticata), andrei a ramengo per tutto il giorno. I lecci, le ginestre, le eriche formano una macchia inestricabile. Senza le capre, “u viuolu” (la mulattiera), non è che una pista celata. Una pista di cinghiali intendo. Il terreno è smosso come da un esercito di dissodatori. E davvero qui, un tempo, c’erano schiere d’uomini e donne. Che coltivavano grano, patate, orzo, granturco, vite, ulivi. “Rasule” (i terrazzi) e “armacere” (i muri di pietre) potrebbero essere un teatro preistorico. Dove per secoli si è dato lo spettacolo circolare della vita. Percorriamo una “via dei canti”, come quelle narrate da Bruce Chatwin. Dove gli uomini chiamano i luoghi per nome ed i luoghi appaiono: grotta degli Schirifigghi (scorpioni), Timpa Perciata (bucata), Timpe dei Lacchi (piccoli pianori), Piani di Rufo (un nome di persona?), Monte Mammicomito (abbondanza?). Qui chiesi stupidamente ad un vecchio contadino: “ma questo sentiero finisce?”. E lui mi rispose “Figliolo, tutto ha una fine”. Alla grotta. Verso oriente, la teoria di colline e valloni che calano verso la costa ionica. Una luce pura e fulgida illumina la verzura delle campagne e le striature policrome della roccia calcarea. Siamo cinghiali nella boscaglia. La scultura litica di Timpa Perciata. Col suo oblò forgiato da maestro vento e maestra acqua e maestro sole. Mi faccio ritrarre nel suo cerchio di cielo terso. Lungo la linea di massima pendenza. E poi giù, fin sui Piani di Rufo, l’antico granaio dell’abitato di Pietra. Vecchi castagni. Una rupe innominata che domina un emiciclo di piccole dolomiti. Sotto il precipizio, “le fontane”, con ancora le tre vasche di pietra. Cerco un leccio gigantesco che un pastore mi mostrò, una volta. Trovo il suo largo ceppo bruciato e tagliato. Lungo la “cava” (il sentiero scavato nella terra con ai lati muretti) di Pietra. Alle case. Un vecchio venerando torna dal pascolo anche lui. Sorride mite, stupito per l’incontro inatteso. Sono rimasti in pochi. Tutti emigrati. Ha lavorato per anni nelle miniere di carbone in Germania. E’ tornato a casa nel 1980. Giusto in tempo per vedere andar via i suoi sette figli. E per tornare a fare il contadino. Ha 93 anni. Le ginocchia piagate dall’artrosi. Gli chiedo che età abbiano i castagni dei Piani di Rufo. “Sono abbandonati – dice –. Equando le cose si abbandonano muoiono”. “Come per noi uomini – aggiunge”. E conclude, lasciandoci basiti: "se non si muore non si nasce". E con la mano segna un cerchio nell’aria. Penso al cerchio di cielo terso di Timpa Perciata. E’ il cerchio greco delle civiltà agro-pastorali del Sud: nascita, vita, morte, rinascita. Il vecchio è roso dal dolore ma sorride. Vivesse in città, starebbe buttato in un letto, imbottito di tranquillanti e antidolorifici, una badante al fianco e la tv sempre accesa. Sa che se c’è una cosa certa nella vita, questa è solo la morte. Ma proprio per questo accetta la sua condizione con gratitudine. La fine sarà il suo inizio, come scrive Tiziano Terzani. Il suo racconto suona come una benedizione per noi erranti. Che dobbiamo ancora tanto cercare, tanto camminare, per giungere alla sua saggezza. Lo vediamo salire lento, claudicante, aggrappato a due bastoni. Un uomo conscio della morte, ma che non si lascia morire. Nelle immagini: La Timpa Perciata e scorci dell'area tra Monte Mammicomito e la Fiumara Precariti (Placanica, Montagne delle Serre, Calabria).

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