LE RECENSIONI DI FRANCESCO BEVILACQUA
3- Cesare Pavese, “Il Carcere”.
Cesare Pavese (Santo Stafano Belbo 1908 / Roma 1950) è considerato uno tra i poeti e narratori più amati del Novecento. Ancora oggi opere come "La luna e i falò" (Einaudi 1950), "Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950" (Einudi 1952), le poesie di "Lavorare stanca" (Solaria 1936), sono letti e studiati. La sua fortuna letteraria è forse principalmente dovuta allo stile elegante e fluido del suo linguaggio, alla modernità delle sue prose e delle sue poesie, ai contenuti esistenziali ed intimi, alla profonda cointeressenza tra la sua vita e la sua poetica, all’originalità dei temi trattati, rivolti alla psicologia dell’uomo ed al suo male di vivere.
Nel 1935 Pavese venne arrestato per attività antifascista e tradotto in carcere prima a Torino e poi a Roma. In seguito al processo venne condannato al confino a Brancaleone, un paesino del sud-est della Calabria. Rimase confinato a Brancaleone per meno di un anno, dal 4 agosto 1935 al 15 marzo del 1936. Dall’esperienza del confino a Brancaleone, Pavese trasse un romanzo, "Il carcere", che venne pubblicato anni dopo, nel 1948 dall’Einaudi in un volume che comprendeva due romanzi, dal titolo "Prima che il gallo canti". Sul confino di Pavese a Brancaleone ha scritto un bel libro Giovanni Carteri, “Al confino nel mito, Cesare Pavese e la Calabria” (Rubbettino 1991). Oggi, "Il carcere" è ricompreso nel volume Cesare Pavese "I capolavori" edito da Einaudi.
Anche se Pavese non ebbe mai la sollecitudine per il Sud di un Carlo Levi, l’esperienza del confino in Calabria rimarrà indelebile nel ricordo dello scrittore, riaffiorando anche in altri suoi scritti.
La Calabria che Pavese scoprì a Brancaleone era la Calabria letargica, rinchiusa su se stessa, potremmo anche dire “moribonda”, uscita dai terremoti di inizio secolo, dalle epidemie e dalle carestie, dall’emigrazione di massa, dalla tragedia della prima guerra mondiale e, infine, dalla stolidità del regime fascista, che quella realtà marginale aveva rimosso e cancellato perché emblematica dell’arretratezza e della miseria indicibili di un Paese che doveva, invece, celebrare le sue glorie coloniali. La vita di questo villaggio di una remota zona dell’italietta fascista scorreva monotona, uguale a se stessa da secoli, impoverita dalle disgrazie della storia e dall’insipienza dei governi. Una sorta di fatalismo misto ad indolenza gravava sul paese, fermo in una immobilità priva di speranza, in un’attesa che, si pensava, non sarebbe mai stata appagata.
E tuttavia, quel paese, quella gente, riservano all’esule Pavese, un’accoglienza affettuosa e accudente. Tant’è che egli scrisse alla sorella Maria: “di questi paesi è un tatto e una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. L’ospitalità è intatta. Niente è più greco di queste regioni abbandonate. Anche i colori della campagna sono greci”.
Occhiate caute e nello stesso tempo rassicuranti accolgono, da dietro gli usci e le finestre, dalle seggiole immote dell’osteria, l’esule Stefano – nel romanzo è questo il nome del protagonista raccontato in terza persona –, l’ingegnere venuto dal Nord, punito da un regime per quella gente inesistente e banale.
Stefano subisce il confino, non accetta la vita in quel villaggio sperduto e silenzioso, immoto e depresso, anela alla fuga, alla liberazione, al ritorno nella sua città. E tuttavia stringe amicizia con tutti, discorre all’osteria con gli avventori, segue qualcuno nelle battute di caccia, è in buoni rapporti con il comandante della locale stazione dei carabinieri, si fa particolarmente amico di Giannino Catalano, con il quale crea un forte scambio emotivo.
C’è qualcosa in quella gente, in quel posto, che attrae Stefano, lo incuriosisce, lo affascina. È il senso di mistero che deriva dal sentirsi immerso nella terra del mito, nel percepire un genius loci che non vuol farsi riconoscere.
Il mito in cui Stefano si specchia e che lo sorprende, lo stordisce quasi, trasuda da tutto ciò che lo circonda. Ad accoglierlo, oltre all’atmosfera sonnolenta del paese, sono subito la spiaggia e il mare, intonsi, davanti alla sua povera abitazione. Una spiaggia e un mare che egli ha la fortuna di godere proprio d’estate al suo arrivo. Fa lunghi bagni nel mare osservato con curiosità dai locali, che giudicano fanciullesca questa sua passione per l’acqua. Essi, il mare, non lo amano, e in fondo non amano nemmeno la terra, troppo arida e ingrata. Eppure la spiaggia e il mare lo stordiscono per la loro purezza, per la bellezza senza tempo nella quale Stefano fa fatica ad immergersi, che gli riesce difficile da capire: è tutto troppo selvaggio e incantato, e nello stesso tempo umile e triste.
Leggendo le prime pagine del romanzo si ha come una sensazione di smarrimento e di desolazione, tuttavia ravvivata, a tratti, dall’intuizione del protagonista di vivere in una condizione di sospensione temporale, di trovarsi catapultato nel passato come attraverso una macchina del tempo: “Stefano andò alla spiaggia, chiazzata di sole e monotona. Si stava bene seduti su un ceppo, a socchiudere gli occhi e lasciare che il tempo passasse. Dietro le spalle intiepidite c’eran i muri scrostati, il campanile, i tetti bassi, qualche faccia usciva dalle finestre, qualcuno andava per le strade, le strade vuote come campi; poi la vertigine del poggio bruno-violastro sotto il cielo, e le nuvole. Stefano non aveva più paure. E guardava il mare quasi nascosto sotto la sponda, e sorrideva a se stesso dell’orgasmo di prima. Vedeva chiaro nel suo smarrimento”.
È come se il luogo, il paese, l’altro paese, quello vecchio, artigliato su una rupe alta, la natura, il mare, la spiaggia, le colline, tutto dica a Stefano parole attonite sulla condizione tragica (e per questo mitica) dell’uomo. Eppure, Stefano avverte in tutto ciò sensualità e bellezza. Una bellezza, intendiamoci, selvatica e triste, ma tuttavia a suo modo attraente e seduttiva.
Una tale bellezza non può che avere come icone delle donne. La presenza delle donne nel paese è celata e misteriosa. Se ne vedono poche in giro. Ma vi sono anche figure di donna scaturite direttamente dal mito, dalla tragedia. Come Concia, una giovane servetta, scattante, selvatica come una capra. Concia è una ninfa o Afrodite o Artemide forse, che vive incubica da secoli, cancellata dalla nuova religione monoteista: “L’aveva veduta girare in paese – da sola – con un passo scattante e contenuto, quasi una danza impertinente, levando erta sui fianchi il viso bruno e caprigno con una sicurezza ch’era un sorriso. […] Nella reclusione della sua bassa catapecchia, fantasticava su quella donna con un senso di libertà e distacco, affrancato, per la stranezza stessa dell’oggetto, da ogni pena di desiderio. […] La stanza dal tetto a terrazzo era un gran bagno di sudore, e Stefano si faceva alla bassa finestra dove il muro gettava un po’ d’ombra e l’anfora di terra si rinfrescava. Stefano ne stringeva con le mani i fianchi svelti ed umidicci e sollevandola di peso se la portava alle labbra. Scendeva con l’acqua un sapore terroso, aspro contro i denti, che Stefano godeva più dell’acqua e gli pareva il sapore stesso dell’anfora. C’era dentro qualcosa di caprigno, selvatico e insieme dolcissimo, che ricordava il colore dei gerani. Anche la donna scalza, come tutto il paese, andava ad attinger acqua con un’anfora come quella.”
O come Elena, l’amante di Stefano. Elena, che Stefano riesce a possedere ripetutamente nella sua stanza vuota e malinconica. Dove pure Elena compare e scompare e ricompare, fedele e segreta, materna e remissiva, cauta e possessiva, rassegnata infine quando Stefano le annuncia la partenza. Elena è l’opposto di Concia. È una donna reale, quantunque anch’essa una creatura dell’ombra, che viene silenziosa e va via altrettanto silenziosa. È tuttavia anch’essa una dea, Atena forse, la terra madre. Stefano, infine, dopo aver goduto tante volte del suo corpo rassicurante, della sua passione inattesa, la abbandona al suo destino nello sperduto paese. Dove però, il lettore ha la certezza che Elena tornerà alla vita di sempre, senza proteste, senza rancori. Perché Elena è l’incarnazione stessa di quel luogo, di quella terra. È la rassegnazione, la malinconia, il duro mestiere di vivere.