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LE RECENSIONI DI FRANCESCO BEVILACQUA

9- Giuseppe Isnardi, “La scuola, la calabria, il mezzogiorno”.
 

Giuseppe Isnardi (Sanremo 1886 / Roma 1965) è ricordato non soltanto per il grande lavoro che svolse nell’Opera contro l’Analfabetismo per conto dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI), ma anche per l’acutezza e la passione profonda del suo approccio geografico e paesaggistico alla Calabria, terra di cui fu letteralmente innamorato per tutta la vita ed a cui dedicò decine e decine di scritti.

Ci occupiamo di Isnardi e del suo rapporto con la Calabria, attraverso un testo antologico edito nel 1985 da Laterza e che ha per titolo: “La scuola, la Calabria, il Mezzogiorno”, i tre temi, cioè, che furono al centro dei suoi interessi e del suo lavoro.

Nel 1912 Isnardi vinse il concorso per l’insegnamento nel ginnasio superiore e fu inviato a Catanzaro, dove iniziò la sua esperienza didattica. Intanto aveva avuto i suoi primi contatti con l’ANIMI, dalla quale, nel 1921 ricevette l’incarico di dirigere le scuole che questa gestiva in Calabria nell’ambito dell’Opera contro l’Analfabetismo affidata all’associazione dal governo italiano. Nel 1928, le mutate condizioni politiche sotto il fascismo, lo costrinsero a lasciare le scuole calabresi nelle mani dell’Opera Nazionale Balilla. La caduta del fascismo mise l’ANIMI nelle condizioni di riprendere il suo lavoro in Calabria e Isnardi accettò di trasferirsi a Roma, dove ebbe il ruolo di consulente didattico. Sempre nel 1951 divenne condirettore, insieme ad Umberto Zanotti Bianco, dell’”Archivio storico Calabria Lucania”.

Il volume di cui parliamo oggi comprende una serie si sezioni tematiche: una prima, “Sud e Nord e la Scuola Italiana”, che costituisce la ristampa del volume omonimo edito da Vallecchi nel 1920 a Firenze; una seconda, “Calabria: natura e gente”, che raccoglie una serie di brevi saggi apparsi su varie riviste o in volumi a più mani o in atti di congressi; una terza, “Calabria: luoghi e costumi”, che raccoglie, a sua volta, altri scritti apparsi sempre su riviste e volumi; una quarta, “Esuli, viaggiatori e descrittori”, dove sono raccolti scritti dedicati soprattutto ai viaggiatori stranieri in Calabria; una quinta “L’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno”, che comprende una mole di scritti riguardanti il lavoro svolto da Isnardi stesso e da altri per l’associazione soprattutto in Calabria.

Il contenuto del libro ci dice la sua importanza per conoscere quella parte di storia, umiliante e nello stesso tempo esaltante, che fu la prima metà del Novecento per la Calabria. Un’epoca in cui la regione, grazie al disinteressato apporto di uomini del Nord come Umberto Zanotti Bianco e Giuseppe Isnardi, per l’appunto, uscì almeno un poco dall’isolamento e dall’oblio in cui l’avevano gettata secoli di miserie, saccheggi, servaggio, scempi ambientali, desolazione.

La Calabria che traspare dagli scritti per così dire antropologici e sociologici di Isnardi è quella di una popolazione minuta (contadini e pastori dei paesi e dei villaggi isolati – come Sant’Angelo di Cetraro, che rappresentò per Isnardi quel che Africo  fu per Zanotti Bianco – di Zanotti Bianchi e di Africo parleremo in commenti successivi –) completamente ripiegata su se stessa, senza più speranza, abbandonata da Dio e dagli uomini al proprio destino di sordida miseria, senza alcuna prospettiva di riscatto, dimenticata. Si legga, a questo proposito, “Contadini di Calabria” (parte III), in cui Isnardi, oltre al tema della povertà e dell’arretratezza endemiche delle campagne, affronta l’argomento di quel “familismo amorale” che abbiamo incontrato parlando del libro di Edward C. Banfileld, concepito come causa principale dei mali del Sud nel suo insieme e della Calabria in particolare. Ebbene, Isnardi, coraggiosamente e in controtendenza rispetto a Banfield, intravide in quel modo d’essere delle società contadine e pastorali più arretrate della regione “germi di sviluppo e di bene comunitario rimasti sino ad ora sconosciuti o malamente spregiati”; oppure dedusse “una fondata ragione di essere e di ancora permanere nella natura ambientale e nella rispondenza a queste facoltà umane, sì, ma anche nella indifferenza e nella scarsa carità civile di chi, lontano, dirige, governa e dice di fare giustizia”. Osservava, a questo proposito, Isnardi: “Non si esce senza pene e senza rischi da un oppressivo isolamento di secoli, da un inappagamento così lungo e così doloroso di aspirazioni, fossero pure semiconscie, ad un giusto, umano benessere”.

Isnardi, come suggerisce la curatrice del volume nell’introduzione, non si considerò mai uno scienziato, un sociologo. “Io non sono un uomo di scienza” ripeteva all’amico Roberto Almagià che lo esortava alla libera docenza in geografia; e aggiungeva con socratica umiltà: “non sono che un imbianchino della cultura”.

Al di là di ogni considerazione teorica e culturale, cercò di immedesimarsi con la gente, di vivere la sua esperienza meridionale dall’interno. Per questo non fu un meridionalista teorico, ma un operatore sul campo. E per questo scelse la scuola e l’alfabetizzazione delle popolazioni come suo principale campo d’azione.

Ma come studioso e conoscitore della realtà meridionale non cedeva certo al fatalismo. Come Giustino Fortunato e come Saverio Nitti, sapeva bene che “non la natura fu il nemico dell’uomo e l’impedimento, nel Meridione, ad affermazioni di una civiltà più complessamente evoluta, ma fu sempre l’uomo il nemico dell’uomo, nei lontani millenni e nei secoli recenti di sopraffazioni e di ingiustizie o di mancata giustizia da parte di chi se ne arrogava sinceramente il diritto”. Egli sapeva, come Corrado Alvaro, che i calabresi sono sempre esuli, evadono sempre, anche quando rimangono nel loro paese.

Nell’età matura – ma prodromi si erano avuti durante tutta la sua esperienza in Calabria – egli divenne, poi, mentore ineguagliato del paesaggio calabrese, dal quale rimase subito rapito (come, del resto, la gran parte dei viaggiatori stranieri che egli aveva accuratamente studiato) e che conservò sempre nel cuore. Le sue descrizioni del paesaggio calabrese ebbero il rigore scientifico dello studioso ma anche e soprattutto, la passione del letterato e, oserei dire, del narratore-poeta.

Della Calabria scrisse, tra l’altro, nel 1953: “Più di una volta è stata fatta la parola “architettura” a proposito del paesaggio calabrese; e veramente può dirsi che esso sia il volto di un vero e proprio capolavoro di architettura naturale […] Come avviene appunto in un complesso architettonico, massa si compone con massa, rilievo con rilievo, in un continuo variare di effetti prospettici e di illuminazione [...]. Una disposizione di spirito abbastanza egoisticamente romantica, con la quale si possa essere venuti in Calabria per goderne il paesaggio, per “sentirne” la bellezza di terra lontana e favoleggiata, non tarda a scomparire o a dimostrarsi inadatta, dinanzi a tanta chiarezza di forme che vi pare abbiano una loro logica composizione, a tanta nitidezza di cose, cielo, montagne, colline, alberi, casolari, che vi par di vedere sempre attraverso una magica lente di cristallo e di avere vicine e familiari, mentre li sapete lontani e troppo spesso irraggiungibili allo scarso tempo di questa vostra felicità di rapiti contemplatori, dinanzi, infine a tanta visibile o che il cuore sa intuire, rispondenza dell’umano al terrestre. Restano altri sentimenti, e si formano altri stati d’animo, se la vita vi concede di rimanere e di fare meno incompleta la vostra esperienza: un’attrazione sottile ed insieme profonda, un respiro ampio di libertà ed una simpatia di tutto il vostro essere, fisico e spirituale, che poi la lontananza saprà mutare in una di quelle serene, non romantiche nostalgie che danno alla nostra maturità di vita un sapore indimenticabile”.

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