LE RECENSIONI DI FRANCESCO BEVILACQUA
5- Raoul Maria De Angelis, “Inverno in palude”.
Non so come sia possibile che di un autore come Raoul Maria De Angelis (Terranova da Sibari 1908 / Roma 1990), nessuno o quasi si occupi più (salvo forse che al suo paese natale qualche istituzione benemerita). Tant’è che “Inverno in palude” (edito da Mondadori nel 1936) - il suo capolavoro - è reperibile con molta difficoltà. Eppure De Angelis è autore raffinatissimo, tutt’altro che ancorato ad una pura e semplice raffigurazione neorealista della Calabria e dei calabresi. Non scrisse solo di temi regionali. Tutt’altro: fu prolifico autore teatrale, come giornalista fu inviato all’estero in mezzo mondo, e fu perfino apprezzato pittore con mostre in Europa ed oltre. Tra i suoi romanzi ricordiamo "La peste a Urana" (Mondadori 1943), protagonista di una disputa sulla ipotesi che il libro fosse stato plagiato da Camus nel suo "La peste" (Gallimard 1947), "La brutta bestia" (De Luigi 1944 e poi Mondadori 1952), di cui ci occuperemo in un soccessivo commento, "Apparizioni del Sud" (SEI 1954, poi riedito da Rubbettino nel 2012).
Ciò nondimeno, nei suoi romanzi riaffiora, come da una sorta di latenza sepolta, la terra d’origine, la Calabria, con le sue contraddizioni, i suoi spettri, i suoi dolori, ma anche le sue meraviglie, la sua sensualità, la sua crudele bellezza.
De Angelis era originario di Terranova da Sibari, un piccolo comune a 300 metri di altezza sulle colline che dominano la bassa valle del Crati e la Piana di Sibari, sino ai primi decenni del Novecento invase ancora da una grande, secolare palude, impinguata dalle cicliche, inarrestabili esondazioni dei corsi d’acqua. Un luogo straordinario, che De Angelis descrive con toni immaginifici, sognanti, poetici, dalla prima all’ultima pagina, come nessun altro ha fatto e farà (a parte il solo Francesco Perri) con altri paesaggi, pure forti ed “eloquenti”, della Calabria.
Il libro è una sorta di ode alla palude, alla vita naturale ed umana che vi si dispiega, al senso del numinoso che vi aleggia. All’inizio si resta letteralmente basiti dinanzi a questa inattesa propensione del narratore per la descrizione del paesaggio, minuziosa, sapiente, onirica, pittorica e musicale direi: “Ai primi geli, i frutti marci degli ontani scoppiano in nuvolette di cenere e le rane sprofondano sotto la melma: così comincia l’inverno letargico della flora e della fauna nella bassa. Però gli arboscelli e le radici non hanno mai pace; anche sotto la patina del gelo, le acque corrodono e si aprono vie sotterranee nel vivo – acque ceche e crudeli. I venti freddi fanno risonare le macchie di vetro azzurro e le erbe che sembrano fili inzuccherati di brina. I tronchi abbattuti dalle prime bufere sbarrano i sentieri, e la pianura non conserva tracce di uomini e di belve. E' la stagione dei cacciatori. I cinghiali scendono dalle montagne, goffi e mostruosi, con gli occhi pazzi di fame e di ferocia e si avventurano fino alle soglie delle casupole di sterpi e di fango; devastano le zone coltivate a grano, abbattendo siepi e staccionate. La gente sta rinchiusa nelle capanne piene di fumo e calde: le donne filano, al lume delle lucerne a olio o al riverbero della fiamma, gli uomini bevono e fumano: i più giovani incidono i legni dolci e ne ricavano utensili e strumenti musicali con fregi e decorazioni a fuoco, mentre le ragazze spiano quei lavori e si trastullano con gomitoli di lana e matasse di cotone."
E così avanti per pagine e pagine, che ci parlano di un habitat e di una umanità che non esistono più, che almeno da due generazioni i calabresi non conoscono e pensano, forse, non siano mai esistiti. Già, perché le paludi costiere, che erano la norma in Calabria sino agli anni Trenta del secolo scorso, oggi sono scomparse, sono state bonificate, se ne è completamente cancellata la memoria (ne parleremo espressamente in un altro commento). E con esse si è cancellata la memoria non tanto della zanzara anofele e della malaria (cosa certamente utile e lodevole), ma anche e soprattutto di una civiltà, di un paesaggio fatto di natura e cultura che era, appunto quello della palude. Ed è della complessa, ricca esistenza di questo paesaggio, di questa vita che De Angelis racconta nel suo splendido romanzo.
Una vecchia famiglia di possidenti, i Gruerio, cade in disgrazia e perde i suoi beni, la terra nella “bassa”, nella palude, vivificata, nutrita, fertilizzata dalle acque del Crati: la grassa e ricca terra che i nobili ed i borghesi possiedono, coltivano, utilizzano tramite contadini e pastori che fanno la spola tra le capanne insalubri della bassa e le case del paese, dove trovare rifugio momentaneo dalla malaria. E attorno agli umani ruota tutto il mondo della palude. Ci sono gli stagni stagionali (le gore), i fuochi fatui prodotti dai gas sprigionati dalle piante, le fiere ed i mille animali selvatici che si celano nella macchia fitta, gli alberi secolari, che quando muoiono stramazzano al suolo e marciscono nella melma, ci sono le alluvioni e le tempeste, ma anche i piaceri della buona stagione, il potere rigenerante e magico delle acque.
Il romanzo ci descrive i Gruerio uno per uno e, attraverso la storia, in particolare, di uno di loro, il rude, silenzioso, tormentato don Angelo, della sua sensualissima relazione con Carmela, una giovane andata in sposa ad un ricco speculatore tornato dall’America, passa in rassegna i tipi umani del paese e della zona. Carmela è una ninfa, è la palude stessa, che risucchia don Angelo nella possessione, nella manìa, la follia divinatoria entro cui erano catturati, come prede ignare, gli sprovveduti viaggiatori che all’ora panica si avvicinavano ad una fonte sacra e divenivano ninpholeptoi, posseduti dalle ninfe, come spiega in un affascinante saggio Roberto Calasso ("La follia che viene dalle Ninfe" Adelphi 2005). Carmela, pur appena diciassettenne, attrae a sé don Angelo come per magia, e lo lega, lo strega con le sue arti seduttive e con un sesso che è amore nel senso più alto e sublime del termine (dolcezza e tormento nello stesso tempo). Complice la figura arcana di una serva quasi stregonesca, Macrina. E legato resta Don Angelo a Carmela anche dopo che ella è costretta dal padre a sposare il ricco italo-americano.
Don Angelo soffre a lungo. Sino a che non incontra un’altra Ninfa, Angelica, anch’essa poco più che bambina, servetta nella taverna dove egli trova temporaneo ricovero durante un viaggio a piedi. Angelica, di notte, si desta dal sonno ed accorre accanto al fuoco dove l’uomo stava intonando una malinconica, struggente nenia con la zampogna. Anche Angelica è la palude, la terra, forse la terra perduta dei Gruerio, ma anche la terra intera della bassa, che scomparirà, per come era da secoli, di lì a poco.
Una volta tanto nella letteratura calabrese all’autore non importa tanto raccontare la storia di un uomo o degli uomini, quanto la storia di una civiltà, nella quale uomini e natura, uomini e paesaggio, come dicevo, sono profondamente legati. La palude è il liquido amniotico dei contadini e dei pastori di Terranova di Sibari, è l’utero che li protegge dal nulla, dall’anonimia, dall’"atopia" ossia dall’assenza di luoghi antropologici, come direbbe Eugenio Turri. Per essi la palude è vita, sostentamento, lavoro, immaginario simbolico, memoria.
Ma viene il momento in cui quella civiltà deve essere brutalmente cancellata. E' una vera e propria "apocalisse culturale", come direbbe Ernesto de Martino, la distruzione di un intero mondo dalle sue fondamenta. E tale traspare dalle pagine di De Angelis. A differenza di Alvaro, che sostiene che la civiltà che scompare (quella contadina e pastorale del suo Aspromonte) non deve essere pianta ma solo ricordata, De Angelis difende quella vita, quel luogo denso e profondo, assume il diritto di quel mondo di conservare la sua cultura, si indigna contro chi, per bieche ragioni speculative, vuol distruggerlo. E' come se egli voglia andare al di là della rassegnazione di Alvaro, come se voglia contraddire la convinzione di Alvaro stesso che non ci si debba opporre alla modernità che incombe. Alvaro, sintomaticamente, paragona quella civiltà ad una mummia che si disfa al contatto con l'aria, lasciando intendere che essa è ineluttabilmente morta. Mentre De Angelis sostiene che quel mondo è ben vivo e che occorrerebbe salvarlo. L'ultima parte del libro è una accorata - e indignata - perorazione di questa sua idea che non è solo poetica ma anche storica, antropologica e politica.