LE RECENSIONI DI FRANCESCO BEVILACQUA
17- Marta Petrusewicz, “Come il Meridione divenne una questione”.
Si intende per "Questione meridionale" quel problema sociale e politico che, a partire dall'Unità d'Italia, venne posto, nel Paese, attraverso una serie di studi, inchieste, saggi, iniziative. Ufficialmente, la nascita della "Questione meridionale" si fa risalire al libro dello storico Pasquale Villari "Lettere meridionali", pubblicato nel 1875. La tesi dei meridionalisti, sia pure con sfumature diverse, era che il Sud scontava una grave situazione di arretratezza rispetto al resto del Paese sia per motivi storici e sociali che per ragioni ambientali e che questa "diversità" dovesse essere colmata attraverso interventi di tipo straordinario che servissero a riequilibrare le sorti di quest'area più sfortunata della nazione.
Parliamo, allora, di un libro di storia che racconta come questa rappresentazione (ma anche autorappresentazione) del Sud abbia potuto prodursi ancor prima che nascesse ufficialmente la "Questione meridionale" e come, proprio nell'ottica di un nuovo modo di guardare ai problemi del Sud, sia opportuno "decostruire" la "Questione meridionale" stessa. Sto parlando del volume della storica Marta Petrusewicz (Varsavia 1948) "Come il Meridione divenne una questione, rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto", pubblicato nel 1998 dalla Rubbettino.
Sostiene Marta Petrusewicz che il Sud, da un certo punto in avanti della storia, è stato concepito ed interpretato esclusivamente in rapporto al Nord: "Il Sud è l'alter del Nord. Quando il Sud storicamente si riferisce al Regno delle due Sicilie, il Nord significa il Regno sabaudo. Quando il Sud è sinonimo della civiltà contadina, il Nord è urbanizzato e industriale, se il Sud rappresenta il produttore delle derrate agricole, delle materie prime e fornitore di lavoro docile ed a buon mercato, il Nord rappresenta il produttore di macchine, manufatti, servizi specializzati, know-how e classe operaia sindacalizzata. Quando il Sud significa la civiltà mediterranea della tradizione greca ed araba, esso è contrapposto al Nord centro-ovest europeo e longo-bardo. […] Sud e Nord esistono soltanto in questo rapporto di alterità."
Ma quale era la situazione del Sud Italia prima che la Questione Meridionale nascesse? La memoria va ovviamente al Regno di Napoli sotto i Borboni, così come si era formato a partire dal 1734, ed alla sua autonomia dalla corona spagnola. La prima parte dell'esperienza amministrativa della dinastia borbonica non fu priva di fermenti innovativi. Ma ben presto, la "grande paura" seguita alla Rivoluzione Francese riportò il tutto nell'alveo del più puro dispotismo. E tuttavia il periodo riformista aveva visto il formarsi di una intellighentia illuminata sia a Napoli che nelle province. All'università di Napoli venne istituita la prima cattedra di economia politica in Europa. L'idea che gli stessi illuministi meridionali si erano fatti delle ragioni dell'arretratezza del regno (privilegi e giurisdizione baronali; iniquità fiscale; povertà, ignoranza e superstizione della classe contadina; mancanza di infrastrutture; assenza di istituti creditizi etc.) era quella di una società soffocata dai lacci di un anacronistico feudalesimo. Ma una tale situazione non era assai dissimile da quella di gran parte del resto d'Europa. E comunque queste erano le convinzioni dell'intellighentia meridionale anche dopo la fallimentare esperienza della Repubblica Partenopea del 1799 e dopo il "decennio" napoleonico (1806/1815). Quanto accadde in quel periodo lo abbiamo in parte già appreso con alcuni dei precedenti commenti. Resta da dire che se la parentesi francese aveva prodotto l'abolizione del feudalesimo e questa era stata confermata dai Borboni, dopo il decennio francese si tese a conservare più che a restaurare. Sopravvenne il periodo 1820/1821, di rivendicazione costituzionale: iniziale concessione della costituzione, successivo intervento degli austriaci, nuova ondata di repressione. Venne poi Ferdinando II, che decretò una amnistia e diede impulso a riforme. Rinacque così la speranza nel cuore dell’intellighenzia. Diverse scuole prosperarono a Napoli e nelle province. A Napoli le due scuole più avanzate erano quelle di Francesco de Sanctis e di Basilio Puoti. Vivace era anche il mondo dell’arte. Nacquero riviste. Le idee liberali prosperarono perfino in ambienti ecclesiastici. Si produsse un’opinione pubblica progressista. La vocazione agraria del regno e la necessità di modernizzare l’agricoltura fece sviluppare l’associazionismo locale. Fiere, feste, mostre, studi si intensificarono in questo settore. Si pensò a rimboschimenti, bonifiche, innovazioni nei sistemi colturali etc.. Intanto, l’imprenditoria agricola del regno era divenuta liberale. Nel solo senso del liberismo economico però.
Ma sopravvenne la rivoluzione del 1948. Che, differentemente dai moti del 1799 e del 1820, fu sostanzialmente una rivoluzione fatta da giovani intellettuali romantici. Alle elezioni del 1848 risultarono eletti numerosi democratici tra cui Luigi Settembrini. E questo acuì le paure della monarchia. Sicché nel 1949 il re sciolse il parlamento ed abrogò la costituzione. Sopravvenne una nuova ondata di repressione. Fu arrestato il fior fiore dell’intellighenzia del regno. Le condanne furono durissime. Le energie e le capacità della classe dirigente si impoverirono enormemente.
Molti esuli trovarono rifugio in Svizzera, in Francia, in Gran Bretagna, anche in Piemonte ed in Toscana. Ma ebbero, in gran parte, vita grama. E su di loro gravava una profonda malinconia oltre che un evidente disagio economico (i loro beni in patria erano stati confiscati). Gli esuli tendevano a ritrovarsi ed a vivere a stretto contatto. Si produsse così una sorta di rappresentazione collettiva della patria lontana, che aveva come perno lo stato di prostrazione economica, sociale, politica e culturale del Sud Italia. E questa rappresentazione (o autorappresentazione) coincise, in gran parte, con i pregiudizi che già si erano formati all’estero.
Al loro rientro in patria, dopo l’Unità, gli esuli mostrarono di essersi formati una visione acutamente bipolare: da un lato il Sud Italia, arretrato, povero, rurale, corrotto, inefficiente, disperato; dall’altro il Nord Italia ed il resto d’Europa, moderno, economicamente in crescita, industriale, ben amministrato, efficiente, felice. “Più cresceva l’ammirazione per il paese che li ospitava – scrive la Petrusewicz – più cresceva il disdegno per la patria; più la libertà diventava sinonimo di civiltà, più la mancanza di libertà diventava sinonimo di barbarie. L’accettazione del paese dell’asilo diventava il rifiuto di quello d’origine, l’amore verso il primo diventava l’odio verso il secondo. L’esterno era contrapposto all’interno come la civiltà alla barbarie. L’Italia divenne l’alter del Regno di Napoli; i paesi del rifugio, tutti al Nord, divennero l’alter del Mezzogiorno. […] Il Mezzogiorno cominciò a trasformarsi in Questione”.
Dunque furono proprio gli esuli a fomentare l’idea di una differenza ineludibile del Sud. Tale differenza riguardava sia il governo, giudicato dispotico, corrotto ed incapace, e sia il popolo, ritenuto amorfo, oppresso, viziato. E la differenza, ben presto, venne marcata soprattutto nel confronto con il Piemonte cavouriano. In molti pensavano e affermavano che il Sud fosse gravemente infermo e non avesse più la capacità di guarire da sé. Ed è proprio questo, a ben vedere, lo stereotipo più forte della Questione Meridionale. Tant’è che la crisi politica dovette risolversi con una guerra esterna (l’unificazione) e non con un cambiamento interno.
Conclude l’autrice: “Quando nel 1860 gli esuli ritornarono in patria […] vi trovarono quel che ormai si aspettavano di trovare. Tanto la costruzione della rappresentazione funesta del Mezzogiorno, tanto la trasformazione del loro rapporto con la patria erano già fatto compiuto. Gli esuli meridionali, scrive Paolo Alatri, acclimatatisi ormai a un grado superiore di sviluppo politico, sociale, civile, saranno allora come degli spaesati proprio nel loro paese d’origine, si sentiranno scoraggiati nella triste e mortificante realtà meridionale, e finiranno talvolta col rifugiarsi in una sterile recriminazione, non disgiunta da una punta di disdegno, nei confronti di quelle popolazioni, giudicate di troppo inferiori e quasi organicamente viziate e quindi irrecuperabili per opera di governo e di amministrazione”.