GIGANTI D’ASPROMONTE. DOVE IL FUTURO E’ PRIMITIVO.
L’anziano è accanto ai resti di un antico riparo di pastori: cerchio di pietre sapientemente incastrate. Sta lì fermo, con la camicia di velluto a coste bisunta e, sotto, la maglia di orbace. Lo incontriamo nel fitto dei pini di Acatti, in Aspromonte. Inguainati nei nostri indumenti high-tek facciamo un bel contrasto. Il dialogo si ripete da anni, sempre uguale: “avete trovato funghi?”, “no”, “e allora che cercate?” … L’ho descritto dettagliatamente ne “Le fantasticherie del camminatore errante”. I miei compagni mi guardano increduli: hanno prova che non si è trattato di un’invenzione. Curioso incontrare l’uomo proprio accanto ai resti del rifugio. Quasi che, con la sua presenza, voglia sottolineare un legame che si perpetua nonostante l’abbandono, nonostante la modernità dilagante. Quando quel cono di pietre, pertiche e ginestre (“pagliaru”) era attivo, dentro, i pastori stavano al caldo. Riparati dal vento e dalla pioggia. Rincuorati da un fuoco di legna il cui fumo esalava dalla copertura di ginestre. Trascorrevano le lunghe notti accucciati sui giacigli di felci avvolti nei mantelli, nelle coperte e nelle pelli. Tutt’intorno la “mandra” si ammassava nello stazzo. E i cani stavano vigili e inquieti per difendersi dai lupi. Risposte a bisogni primitivi fin dal Neolitico. Veniamo qui in pellegrinaggio. Partendo dalla strada per il Santuario di Polsi. Questa volta la divinità che onoriamo non è la Madonna-Sibilla che si venera laggiù, nella chiesa. Ci attendono altri dei. Sul crinale che fa da spartiacque fra le gole della Butramo, da un lato, e quelle della Potis, dall’altro, alligna uno dei boschi monumentali più affascinanti d’Italia: decine e decine (forse centinaia) di pini annosi e giganteschi incredibilmente sopravvissuti ai tagli. Entriamo nel sacrario. Dinanzi a un pino schiantato dal fulmine ricordo quando fummo costretti a ripiegare dalle gole della Butramo sotto un temporale furioso, un agosto di tanti anni fa. Scendiamo lateralmente lungo un ripido costone che cala verso la fiumara per far visita ad alcuni giganti in posizioni scabrose. E raggiungere un culmine roccioso che sovrasta i meandri terrifici di Valle Infernale. Uno di quei luoghi dove il mio cuore duole per troppa emozione. Uno di quei luoghi dove un’angina pectoris potrebbe lasciarmi sorridere di gratitudine. Racconto di quando ci diedero per dispersi proprio laggiù, fra le spire del drago, nell’aprile del 1990. Ancora vi era un sequestrato in Aspromonte. Qualcuno chiede: “ma avvertiste qualcuno?” Rispondo “Ma guarda che i telefonini non c’erano ancora”. Poi ancora avanti, sul crinale principale verso le nostre amiche querce. Dal culmine roccioso vediamo Montalto, la cima d’Aspromonte, con i boschi di faggio già incanutiti dall’autunno. E le macchie scure dei pini e degli abeti. E, sull’altro versante, i paesi ai piedi delle montagne, i greti immensi delle fiumare, e il mare. Comprendo che mai nessuna diabolica invenzione della tecnica potrà soddisfare il bisogno di spazi, di silenzi, di sguardi che qui si colma, come d’incanto. E’ nelle città che s’inventano bisogni indotti per vendere tecnologie sempre nuove. Qui tutto è primordiale. E improvvisamente comprendi che non hai alcuna necessità di essere connesso ad Internet o di guardare una fiction, di accendere un tablet o uno smartphone, di infilarti un paio di occhiali per immergerti in una realtà virtuale. Perché qui, se sai godere di quel che hai, nessun bisogno indotto potrà mai costringerti a diventare un automa. Perché qui c’è un futuro dopo il “futuro”. E quel futuro è primitivo. Nelle immagini: scorci del bosco monumentale di Acatti ed Afreni in Aspromonte, Calabria. Foto Francesco Bevilacqua.