ALIENI D’OCCIDENTE.
Il giorno dell’Immacolata seguo il percorso di un gregge di capre sul Monte Reventino. In vista della conca di San Mazzeo e, oltre, del Monte Mancuso. Noto, dai segni nel fango, nella neve, che ci sono anche i piccoli. Fatti nascere in massa in questo periodo d’avvento (come pure in quello pasquale), per le opulente tavole cristiane. C’è gente, quassù, che vive ancora di agricoltura e pastorizia. Qualcuno lo fa più o meno come i suoi avi. Qualcun altro in modo più innovativo, magari integrando con l’accoglienza e con il commercio minuto. Visito spesso queste persone. Non mi sembrano infelici. Non si imbottiscono di tranquillanti, antidepressivi ed antidolorifici. Non pensano a suicidarsi. Non vogliono emigrare. Stanno nei loro villaggi con la semplicità delle creature selvatiche, con la grazia delle foglie sugli alberi. Lontani dalle pianure, dalle città. Sulle colline, invece. O sulle montagne, addirittura. Certo, la loro vita è dura. Non di rado, sono abbandonate a se stesse. Non sono ricche. Spesso neppure agiate. Vivono faticando, di quel poco che riescono a produrre con le loro mani. Circondate da orti, campi, boschi. Le loro case non sono come quelle del Mulino Bianco Barilla. Non brillano di luce. Il loro grano non è d’oro zecchino. Hanno vecchie case di pietra, malamente trasformate e non finite. Nei pressi stazionano mucchi sparsi di cose dismesse. Tenute lì, perché “non si butta nulla”. Anche gli spaventa-passeri sono fatti di vecchi abiti laceri, di oggetti rotti appesi ai rami degli alberi. Per far rumore nel vento e mettere in fuga le ghiandaie. Fra i panni stesi vi sono sempre delle tute da lavoro. Un tempo, dopo l’Unità d’Italia, dopo la prima guerra mondiale, dopo la seconda, erano i padri, le madri, gli avi di questa gente ad emigrare, a lasciare le loro case col cuore colmo di nostalgia ma anche di speranza. Oggi, invece, sono i loro discendenti ad incarnare la resilienza del Sud. E a partire non sono più loro, ma i giovani delle città, quelli che hanno studiato. Se ne vanno senza né speranza né nostalgia. Partono perché così è scritto nelle loro vite, nei loro studi, nella loro educazione. Sono indifferenti. Sanno di non appartenere più ad alcun luogo, di non avere radici, di non sentirsi parte di nessuna comunità. Non si riconoscono in alcun paesaggio. Perché il loro paesaggio è fatto degli stessi materiali di un qualunque ambiente urbano del mondo. Gli “antichi” invece, stanno ancora quassù. Apparentemente ancorati al passato. E invece unici ad essere davvero proiettati verso il futuro. Quando i robot e le intelligenze artificiali avranno sostituito le braccia degli operai e le menti di medici, ingegneri, avvocati, quando non ci sarà bisogno nemmeno dei negozi perché tutto sarà acquistato sul web, loro saranno gli unici alieni del pianeta. I soli a tenere ancora libere le galline. I soli a strappare i cavolfiori dalla terra. Relegati sulle montagne. Sempre più spopolate. Lontane delle straripanti megalopoli nelle valli e sulle pianure. Seguo, dunque, le palline delle capre sotto il cielo plumbeo. Mentre salgo, le nuvole scendono a coprire gli alberi e la terra. Il gelo della notte ha strinato un mosaico ghiacciato sulla lettiera di foglie. A valle del sentiero il bosco di ontani napoletani colonizza antichi terrazzamenti, dove un tempo si produceva di tutto. Le fronde sottili, addobbate di piccoli frutti marroni, sono ricami contro il biancore del cielo. A monte sono ricresciuti i cerri. E, di tanto in tanto qualche ibrido fra cerro e sughera. Questa nebbia fitta che mi circonda è come un sogno. Sono in un cammino onirico. Stringo gli occhi per proteggerli dal vento gelido. Potrei marciare dormendo. Come uno stanco animale braccato. Arrivano i pini. Spettrali, schiantati, bruciacchiati, oscillanti. Il bosco mi inghiotte. Sul crinale di Monte Faggio. Scendo sul versante opposto della montagna, quello di Sirugo. Si squaderna il paesaggio della valle del Piazza. Senza la nebbia. Con in lontananza il lucore della città della piana. Grandi castagni abbandonati attendono di essere abbattuti. Coni ispidi di vitalba avvolgono gli alberi come un sudario. Piccole querce spuntano dal suolo ove un tempo sonnecchiava il grano. Un sinistro anemometro preannuncia l’arrivo, anche qui, di pale eoliche. Giù a Sambate, i resilienti, gli alieni dell’occidente civilizzato, riposano accanto al fuoco caldo del camino. Nelle immagini: scorci del sentiero fra Sambate e Monte Reventino, Calabria. Foto Francesco Bevilacqua.